Ho deciso chi doveva vivere e chi morire. Frontiera cambogiana, 2 novembre 1979.
La sua testa penzola sulle mie spalle come un vaso vuoto. Il suo braccio pieno di pustole sbatte sul mio petto come un ramo spezzato, ma è viva perché sul collo continuo a sentire il suo respiro leggero. Non la conosco; è solo un orribile pacco di ossa che ho raccolto nel bosco ormai diventato un cimitero.
"Segui la puzza dei cadaveri e ti troverai in Cambogia", m’ha detto il soldato thailandese all'ultimo posto di blocco dove ho lasciato la strada di terra rossa per addentrarmi a piedi nella foresta. Il lezzo è diventato ben presto insopportabile. Persino gli animali sembravano esserne terrorizzati, perché, in pieno giorno, la giungla, misteriosamente, taceva. Uscendo dai ciuffi d'erba più alti di me, in una radura li ho visti: un bambino immobile accucciato sulle sue feci, un altro impietrito accanto al cadavere di un uomo con le mani rattrappite nell'aria, un gruppo di donne in preda ai brividi sotto il sole bruciante che asciuga le ultime pozzanghere d'acqua e velocemente imputridisce i morti.
Ne vedevo ovunque mi voltassi e quelli che non vedevo li intuivo dietro ogni cespuglio: uomini, donne, bambini dell'età dei miei, a decine, a centinaia erano sparsi nella foresta, gli occhi sgranati ed ebeti, le braccia e le gambe ridotte a stecchi, la pelle vizza, coperti di stracci neri intrisi di escrementi e di polvere, scossi dalla febbre, incapaci di fare un passo in più, buttati a caso qua e là come grandi uccelli abbattuti nello splendore della vegetazione tropicale da un'antica, e per noi dimenticata, catastrofe che chiamavamo "fame".
Facevano parte di un gruppo molto più numeroso che si era accampato lì nei giorni scorsi. Quando il grosso è partito, questi sono stati lasciati indietro senza i loro sacchi, le stuoie, l'acqua. I più forti s'erano divisi le loro ultime spoglie e li avevano lasciati alla foresta. Nessuno piangeva, nessuno chiedeva aiuto; i più ormai erano come persi in un mondo loro.
Il silenzio era disperante. Ai morti si fa presto ad abituarsi, ma ai moribondi no. La vista dei moribondi è insopportabile specie se si sa che si potrebbero salvare. La strada era a solo due o tra chilometri, chi ci fosse arrivato avrebbe avuto una possibilità di sopravvivere; gli altri, all'alba, sarebbero stati come quelli già coperti di mosche o brulicanti di vermi. Buttarmi sulle spalle quella donna scheletrica e mettermi in marcia non è stata una decisione, bensì un gesto istintivo. Era la più vicina ai miei piedi.
La frontiera fra la Cambogia e la Thailandia corre in mezzo a una distesa fantastica di foreste verdissime rotte qua e là dall'improvviso spuntare di una collina coperta d'impenetrabile giungla. Da mesi, a enormi ondate, migliaia e migliaia di cambogiani inebetiti dalla fame, dalle malattie e dalla paura marciano verso occidente ed entrano come un esercito di zombie nel mondo selvaggio della foresta che è ora diventata un vasto cimitero della razza khmer. Cercano cibo, acqua, medicine: «Siamo come tartarughe che vanno alla cieca verso un lago», dice uno di loro. Se raggiungono la strada si salvano e finiscono in un campo profughi.
Col mio leggero fardello sono uscito dalla foresta. All'ombra di un boschetto di alberi di cocco alcune centinaia di cambogiani si erano accampati e stavano cuocendo nell'acqua fangosa alcune radici appena scavate dalla terra. Nessuno si è voltato e il pesante silenzio era rotto solo dal tintinnare dei cucchiai contro le pentole nere sui fuochi di legna.
Molti parevano sani. Erano forti. Probabilmente si trattava di soldati di Pol Pot, alcuni persino quadri, forse commissari politici, a giudicare dagli orologi al polso e dalle penne nel taschino delle uniformi sbiadite e polverose. Sguardi freddi di disprezzo. Accanto a un gruppetto che, calmo, mangiava, una bambina boccheggiava, morendo senza una goccia d'acqua sulle labbra riarse. Nessuno se ne occupava.
I forti, i duri senza più emozioni, cresciuti in un Paese in cui ogni traccia del passato, ogni valore della religione e della tradizione sono stati cancellati, parevano perfetti esempi di quell'«uomo nuovo» che Pol Pot ha voluto creare al costo di metà della popolazione. Addestrati a uccidere, decisi a sopravvivere. Alcuni sono quelli che hanno commesso le stragi, altri sono i sopravvissuti ai pogrom. La foresta li rivomita così, boia e vittime, accomunati dalla fame e dalla malaria che non conosce politica.
Un camion della Croce Rossa con tre giovani svizzeri si ferma lungo la strada e un medico, su una stuoia di paglia, comincia a cercare la vena di un moribondo per dargli del glucosio. Gli affido la mia donna scheletrica e riparto per la foresta. "Prendi solo i migliori, al massimo possiamo metterne trenta sul camion", lo sento gridarmi dietro.
S'impara presto a scegliere chi può vivere e chi deve morire. Tornato alla mia radura, ho automaticamente preso il bambino accanto al padre morto e non quello ormai sconquassato dalla dissenteria, una ragazza che aveva ancora la forza di scacciarsi le mosche e non la sua vicina, forse la sorella, di cui sentivo il polso leggerissimo e i cui occhi non mi vedevano più.
Sono andato avanti e indietro varie volte, però mi sentivo più il giustiziere di quelli che lasciavo che il salvatore di quelli che prendevo. Anche per quelli non avevo fatto abbastanza. La mia donna scheletrica è morta dopo due ore. Come fosse una cosa, l'ho presa e messa sulla pila dei morti che, nell'improvvisato ospedale lungo la strada, diventava sempre più alta. Nel groviglio di gambe e braccia non si riusciva più a contare quanti erano i cadaveri.
Presto, attorno alla "corsia" di stuoie messe per terra si è avvicinato un gruppo di contadini thailandesi. Stavano semplicemente a guardare, senza fare un gesto, senza dare una mano. Altri ridacchiavano nella tipica forma d'imbarazzo asiatico dinanzi a questo usuale, ma sempre inaccettabile fatto che è la morte. Una giovane carezzava con amore una scimmia che teneva stretta sul petto, mentre uno dei ragazzi svizzeri singhiozzava, chiudendo gli occhi di un bambino che non era riuscito a tenere in vita.
Il giorno è passato veloce e uno splendido sole è calato improvviso, come succede ai tropici, dietro le chiome delle palme tra riverberi di fuoco. Il cielo s'è fatto scuro, passando rapidamente attraverso ogni sfumatura di blu, arancione e violetto. Mentre aiutavo a caricare i moribondi sul camion, stormi di pipistrelli cominciavano a volteggiare sulle nostre teste e la foresta affogava con tutta la sua sconosciuta umanità nella notte più cieca. "Tiziano Terzani – In Asia".
Non è certo facile commentare le parole di Terzani.
Dio dov’eri?
Dio asiatico, Dio africano, Dio americano, Dio europeo, Dio australiano, Dio di ogni essere umano.
7 miliardi e mezzo di esseri umani, una nullità rispetto al potenziale di questa terra, usati come pedine in un gioco di superbia e malvagità, di falsi principi e di ambiziosità.
Natalino
Ho deciso chi doveva vivere e chi morire.
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